sexta-feira, 28 de agosto de 2009

Las Americas Latinas. Artigo de Laura Atie publicado na Art Key Magazine, Maio-jun, 2009. Milano.

In spagnolo il verbo querer – come esperar, verbo della speranza e (dunque) anche dell’attesa – abbraccia uno spettro lessicale esteso, dove ogni declinazione è legata alla stessa sfera significativa, sfumata nei propri limiti, ma iscritta nella messa in gioco totale della persona; quella della relazione: volere e più ancora desiderare e amare. I verbi più esigenti, quelli che implicano impegno, sacrificio, incontro e accoglienza, un lavoro continuo, impossibile da delegare o rimandare. Attuali, urgenti, ma proiettati nel futuro, pro-gettati nella costruzione. Come ad esempio la costruzione di una propria identità – plurale come l’universo. Inevitabile è la fatica.

Non è un caso che Philippe Daverio, curatore della mostra con la collaborazione di Elena Agudio e Jean Blanchaert, abbia scelto di valorizzare la pluralità per dare conto di un’America Latina come bacino di convergenza di culture straordinariamente ricche in virtù della loro differenza e originalità, che l’occhio eurocentrico non è esercitato a cogliere se non con la superficialità di uno sguardo sul tutto-identico nell’approssimazione (per difetto). Quell’occhio che con violenza aveva imposto la propria visione prospettica evangelizzando e conquistando i popoli indigeni, annientando le più antiche tradizioni precolombiane. Come spesso accade, è proprio dai conflitti e dalle repressioni che nascono le più forti pulsioni di riscatto, di affermazione della propria storia umana, appassionata volontà di testimonianza, denuncia, resistenza.

La mostra intende valorizzare – con un allestimento essenziale, senza altra presentazione (oltre i contributi di spessore in catalogo, bilingue, edito da Mazzotta) che non sia quella delle opere stesse, in modo da lasciare grande spazio all’interpretazione geografica-emotiva – proprio la molteplicità, mostrare gli intrecci culturali ed etnici, documentare le complesse realtà dove nessuno – finalmente – è assolutamente puro. Con un taglio che rimane, di fondo, politico; insiste Daverio su un’arte che rivendica da sempre un intervento sociale attivo, deciso e libero, segnata da una forte componente di ribellione, dall’aspirazione rivoluzionaria; un’arte ‘convinta di dover giocare un ruolo primariamente politico, di dover testimoniare, assecondare la passione dei priori intellettuali verso un dibattito perenne’.

Nonostante l’evidente impossibilità di considerare la produzione latinoamericana come un sistema artistico definito e coerente in se stesso, il carattere eterogeneo delle opere e delle numerose personalità artistiche (una cinquantina), non pregiudica la possibilità di seguire percorsi ben definiti di temi comuni e sentimenti consonanti tra natura e città, anima e morte e al tempo stesso di considerarne l’attualità di fatto – aiutati anche dagli incontri letterari con gli autori e alla rassegna cinematografica che rendono davvero globale questo omaggio volto al Sud del continente Americano.

Fotografia, pittura, installazioni e video: rappresentazione con ogni mezzo, dai grandi maestri epici come Diego Rivera, José Clemente Orozco, o rivoluzionari come Tina Modotti (Falce, martello e sombrero, 1928), a Rodriguez (Ritratto di Montezuma, XVIII sec.) ed anonimi di fine secolo XXI (gli Arcangeli ricchissimi, barocchi, della Scuola di Cuzco), fino alle voci contemporanee più giovani. In The Burden of Guilt (1997) Tania Bruguera si nutre di sangue animale, sacrificale, carne contro carne, corpo a corpo della vita con la morte, Ana Mendieta fotografa le sue performance, lasciando l’impronta del suo corpo – Veronica di sangue che scorre nelle vene aperte (1)– su un sudario, Artur Barrio fa della carne un libro. Il libro del corpo, su cui idealmente scorrono segni, si incidono i caratteri, sfilano ferite. Ivan Capote ci mette parte di un’esperienza più delicata, infantile: le sue cuffie auricolari sono conchiglie di mare – natura stereofonica, come il ritmo disteso di Cada Respiro (2003, 1’ 502) di Glenda Leon: la videocamera si allontana da un drappo fiorito che è l’abito di una ragazza allungata e sottile, sul quale cresce una margherita a ogni espirazione, mentre Ernesto Neto (Elas em transe, 2007) presenta una delle sue note installazioni lattiginose e sospese, Divino Sobral avvolge lana colorata su rami di legno per creare un nuovo giardino delle meraviglie (Garden of Jabuticabeiras, 2008). Alexandre Marucci moltiplica (Perimetro Antropofàgico, 2008) il ritratto di un’indigena impassibile, dal sorriso terribile quanto percettibile, nei luoghi più disparati, un aeroporto come davanti alla vetrina di Louis Vuitton o nella foresta incandescente. Liset Castillo torna a un tema caratterizzante della mitologia più antica, quello del labirinto, per raccontare la città: deserta, abbandonata, fantascientifica, extraterreste, quasi; non è rimasta che la terra al tramonto in Western Civilisation (2006). Un percorso che racconta infinite storie che mancano, forse, a rendere un immaginario superficiale e semplicistico una vera e propria riserva di tesori, dal potenziale ‘realmente magico’: idee, ideali, uto

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